Il “soffio” come principio vitale e immagine del tempo

– Enlace a artículo –
Nel pensiero antico l’universo è un insieme coerente di corrispondenze. La più importante di queste corrispondenze fa capo ai concetti interconnessi di ‘anima’ e di ‘tempo’, rappresentati dalle immagini simboliche del vento e del serpente.

di Andrea Casella

L’ordine del tempo, che era il vero ordine del Cosmo,
portava con sé la sorte della vita e delle anime.

E. Jünger

Non si può non notare che la parola greca che designa comunemente il concetto di “anima”, ψυχή (psyché), alla lettera significa “soffio”, essendo direttamente connessa al verbo ψύχειν (psychein) = “soffiare / respirare / alitare” [1]. Non interessa qui la distinzione, piuttosto sottile, individuata da Onians, tra ψυχή, entità aeriforme di natura fredda collocata nella testa [2], e θυμός (thymòs), entità del pari aeriforme [3], ma di natura calda, collocata nei polmoni e deputata al sentimento e al pensiero [4]; e ciò anche perché, a partire dal V secolo a.C., “i Greci avevano radicalmente mutato e confuso le proprie concezioni di ψυχή e θυμός al punto che il termine ψυχή, dall’originario significato di anima vitale aeriforme specificamente associata alla testa, includeva ormai anche il θυμός nel petto; a sua volta l’originaria identità del θυμός con il respiro venne offuscata” [5]. Tra l’altro, mentre la ψυχή, fuoriuscendo dalla bocca con l’ultimo respiro, sopravvive alla morte del corpo, venendo ospitata nell’Ade come εἴδωλον (eidolon) [6], il θυμός non sopravvive alla morte, dissolvendosi [7]. Quel che importa in questa sede è la constatazione che il principio vitale fosse immaginato affine a qualcosa di aereo. In ebraico, il termine corrispondente al greco ψυχή è נפש (nepesh) [8], che deriva a sua volta da una radice verbale נפח (NPHh), indicante il concetto del “soffio”, del “soffiare”, ma anche del “rinfrescare” [9]. In akkadico il corrispettivo di nepesh è napištu, tradotto comunemente con “vita”, ma dal significato di “gola”, facilmente accostabile al concetto del “respiro”, del “respirare” [10]. In italiano, “anima”, è un sostantivo derivato dal latino anima , il cui primo significato è “aria”, a sua volta connesso al greco ἄνεμος (ànemos) = “vento”.

Che il vento, sostanza aeriforme che “anima” ogni cosa che tocca, imprimendole il movimento, fosse un principio generatore, risulta dalla dottrina orfica, che lo identifica con Eros: “Nel seno infinito di Erebo [11], Notte dalle ali nere genera per primo un Uovo sollevato dal vento e da esso con il volgere delle stagioni germogliò Eros il desiderabile, dal dorso rifulgente di ali d’oro, simile a rapidi turbini di vento” [12].

La relazione cosmogonica tra Eros e i venti è di chiara derivazione semitica (con echi anche nella tradizione egizia [13]), poiché entrambe le idee sono unite nella parola ruah, il soffio divino che aleggia sulle acque (Gen. I, 2) [14]. Nella cosmogonia fenicia, così come tramandata da Filone di Biblo, troviamo il seguente schema: all’origine vi è un caos indistinto formato da tenebre e percorso da venti; ad un certo punto il vento si innamora di se stesso dando vita al desiderio amoroso, principio creatore del mondo. Anche Esiodo, nella propria Teogonia, riecheggia la tradizione fenicia ponendo all’origine di tutto il Caos, da cui nacquero Erebo e Notte (Teog., 116, 123); poi compare, ma senza una funzione precisa, Eros (Teog., 120 – 122), la cui menzione, apparentemente superflua e marginale, fu tuttavia ritenuta necessaria da parte di Esiodo, il quale, utilizzando frammenti della teologia fenicia, doveva essersi accorto del ruolo assolutamente essenziale di Eros [15]. Nella Bibbia, che ha tenuto presente anch’essa il mito cosmogonico fenicio, troviamo le tenebre (ḥošek), il vento (ruah) e, in forma nascosta, le parole fenicie che indicano le tenebre (bhw) e il desiderio amoroso (thw) [16]. Residui di tali idee permangono nella poesia greca: a Saffo, stando a quanto ella stessa dice, “amore scosse le φρένες [phrènes: lett. “precordi/diaframma” [17]] come un vento che si abbatte sulle querce sopra una montagna”, mentre Ibico paragona Eros, scuro e impetuoso, a Borea dalla Tracia [18]. Segno visibile dell’innamoramento è proprio il “sospirare” [19]. Secondo altre versioni orfiche il gran serpente Ofione, che si accoppiò in ierogamia primordiale con la dea Eurinome (“Vagante in ampi spazi”), era la forma assunta proprio dal Vento del Nord, Borea, “vento fecondatore; spesso infatti le cavalle, accarezzate dal suo soffio, concepiscono puledri senza l’aiuto dello stallone. E così anche Eurinome rimase incinta” [20]. Il soffio di Borea rianimò Sarpedone [21].

Primavera del Botticelli, particolare.

La forma ofidica del vento costituisce a sua volta un elemento di collegamento con la ψυχή umana, in quanto anche quest’ultima era immaginata in forma di serpente [22]. Fin da epoca antichissima si credeva che i serpenti fossero incarnazione delle anime dei morti [23]. Allo spirito del defunto veniva attribuita forma di serpente: sul cippo sepolcrale di una donna Sāti – una moglie che si era immolata in sacrificio – è raffigurato un serpente mentre si sporge dal muro per ricevere l’adorazione dei discendenti [24]. Tale credenza deriva dal fatto che la ψυχή, avendo sede propriamente nel midollo (μυελός/myelòs) cerebrospinale, di cui il cervello (ἐγκέφαλος/enkèphalos) – la cessazione delle cui funzioni corrisponde ancora oggi alla nozione giuridica di morte [25] -, costituisce naturale prolungamento e parte integrante, si muta con la putrefazione di esso in un serpente [26], e la colonna vertebrale, da cui passa il midollo cerebrospinale, ricorda con la sua stessa forma un serpente [27].

In quanto principio generatore, il midollo (in sostanza acqua, acqua generatrice [28]), già identificato con la ψυχή, produce il seme. La ψυχή è perciò anche il seme (σπέρμα/spèrma); questo seme, come il midollo (che è “midollo generativo”) è contenuto nel cranio e nella spina dorsale, da cui scorre per propagare una nuova vita [29]. Allude al cervello (ἐγκέφαλος), insieme al cuore (καρδία/kardìa), come organo della generazione un frammento orfico [30]. Coerentemente, il seme è anche respiro. Seguendo Onians: “Eschilo per tre volte parla di Io incinta dell’ἐπίπνοια [epìpnoia: soffio n.d.r.] di Zeus. Che il seme fosse a sua volta respiro, o avesse il respiro (πνεῦμα/pnèuma), e che la stessa procreazione fosse respiro o soffio, risulta assai esplicito in Aristotele. Anche per gli Stoici il seme era πνεῦμα. La procreazione e lo starnuto appaiono manifestazioni distintive della ψυχή. Qui, per strano che possa sembrare, va ricercata l’origine del nome, se il termine ad essa più affine è ψύχειν, «Soffiare». Si spiega dunque anche perché i τριτοπάτορες [tritopàtores: divinità ateniesi, lett. “bisavoli”, n.d.r.], riconosciuti quali ψυχαί ancestrali e agenti sempre attivi della generazione, fossero concepiti come venti (ἄνεμοι)” [31].

Dobbiamo a questo punto inserire una complicazione, necessaria per ricostruire la relazione tra l’essenza generativa, il vento e, in definitiva, il tempo. Abbiamo accennato al potere fecondatore del vento, al seme/πνεῦμα come allotropo della ψυχή, entità aerea incorruttibile: questi concetti ci restituiscono un quadro semantico che allude alla nozione dello scorrere del tempo, χρόνος (chrònos) [32], in quanto essenza costitutiva della vita stessa. Secondo certa dottrina orfica “Orfeo chiama causa prima di tutte le cose Chronos… Orfeo chiamava Chronos il primo elemento” [33], ed esso ha l’aspetto di un serpente a tre teste, simbolo di un arcaico anno suddiviso in tre stagioni [34]; tre come le divine Hòrai, le Ore [35]. In greco, l’anno ordinario è chiamato ἐνιαυτός (eniautòs), che significa, pressappoco, “in se stesso”, rinviando al carattere di coincidenza dell’inizio con la fine, simbolizzato in un avvolgimento serpentino su se stesso [36]. L’ofidico Chronos orfico è del resto chiamato Χρόνος αγήραος (Chrònos aghèraos = “tempo che non invecchia” [37]), come il serpente che compiendo la periodica muta sembra rimanere sempre giovane, e il cui archetipo mitologico è già rintracciabile nell’Epopea di Gilgameš, il re-eroe-dio che si vide sottrarre l’eterna giovinezza da un serpente [38]. Questa corrispondenza micro-macrocosmica del simbolo del serpente è, per usare le parole di Nuccio D’Anna (che tiene ben presente Onians), tipica di “quella mentalità mitica che ritrovava nei processi interiori propri dell’uomo (seme, psiche, ecc.) le stesse modalità creative che caratterizzano l’essere del mondo” [39]. I diversi piani della realtà manifestata sono reciprocamente legati per analogie: in tal modo, nella vita del cosmo si rispecchia la vita dell’uomo, e viceversa. La ψυχή umana è definita da Pindaro un αἰῶνος εἴδωλον (aiònos eidolon), un’immagine di vita [40], espressione traducibile, a nostro parere, anche estensivamente come un “frammento di tempo”. Ebbene, è notevole che nella lingua akkadica la parola ûmum designi tanto il “vento” quanto l’unità di tempo giornaliera (in definitiva il “giorno”), cui corrispondono in sumero i logogrammi UD e UG, dal significato primario di “giorno”, ma utilizzati anche per scrivere le parole “vento” e “tempesta” (cfr. anche ebr. יום = yom, dal significato di “giorno”, occasionalmente usato anche per “vento” [41]). Questa relazione temporale tra il vento e il giorno è stata spiegata, in prima istanza, con il quotidiano spirare delle brezze, così importanti per i ritmi di vita nelle regioni del Vicino Oriente [42]. La deduzione è interessante, ma necessita di alcune precisazioni. Dal nostro punto di vista, l’arrivo quotidiano del vento da una determinata direzione definisce la cronologia del giorno perché, secondo l’idea semitica, reca con sé un principio vitale. Lo spirare atteso del vento colloca l’esistenza nel tempo. Tale circostanza si rinviene nel famoso Cilindro A di Gudea, dove si dice che Ningirsu (il Kronos-Saturno di Lagash, identico a Ninurta) soffierà dalla propria montagna sacra un vento e darà al paese “la brezza di vita” [43]. La menzione di Ningirsu è di particolare importanza, considerata la relazione dell’unità di tempo più ampia dell’eptade (sette giorni) con il gruppo dei sette venti, che sono i sette figli di Enmešarra [44], un misterioso personaggio divino che il testo astronomico del MUL.APIN definisce “il Vecchio, un oscuro antenato di Enlil” [45]. Nei testi in cui sono citati, Enmešarra e i suoi figli appaiono come un gruppo di divinità estremamente arcaiche, che furono detronizzate dai più recenti dèi sumero-akkadici. Infatti, a parte un documento, in cui sembra che Enmešarra abbia lasciato volontariamente il proprio scettro di comando ad Anu ed Enlil – prova evidente, comunque, che egli aveva governato il mondo prima di questi dèi supremi – altri testi parlano, invece, di una vera e propria sconfitta e di un imprigionamento di Enmešarra e dei suoi figli da parte degli dèi più giovani [46]. Così leggiamo che il diciannovesimo giorno del mese di Elûl [47] era un giorno di lutto, perché “Anu incatenò l’eptade divina, i figli di Enmešarra” [48], mentre, in modo simile, ed in relazione a Marduk e a Nergal, si parla dell’imprigionamento dei sette figli di Enmešarra. Un altro testo, piuttosto famoso, mostra “il cocchio elamitico, senza sedile, [che] porta il cadavere di Enmešarra. I cavalli che vi sono attaccati sono il demone di morte di Zu. Il re ritto sul carro è il re-eroe, il Signore Ninurta”. In tal caso Enmešarra, oltre che sconfitto, risulta anche ucciso, apparentemente da Ninurta [49]. L’identità di Enmešarra e il senso della sua morte sul “carro elamitico”, sono stati ben messi in luce da G. de Santillana e H. von Dechend. Se il suo nome, En.ME.ŠARRA, non significa altro che “Signore di tutti i me” [50], ossia Signore delle norme e delle misure (del cosmo), egli non può essere altri che il dio Enki-Ea, il Kronos-Saturno dell’Età dell’Oro, il sovrano dei tempi galattici [51].

Le vicende della sconfitta o della morte di Enmešarra, dell’imprigionamento dei suoi figli, costituiscono, come ben si intuisce, il modello e l’antecedente mitologico dell’“intartaramento” di Kronos e dei Titani [52]. Anche costoro furono detronizzati dagli Olimpici e relegati al di fuori del cosmo, in un abisso senza luce chiuso da porte di bronzo e circondato da mura [53]. A differenza di Enmešarra, tuttavia, Kronos non è morto [54], ma dorme un sonno immortale, e così dormendo continua a “dare le misure” al Demiurgo, suo figlio Zeus [55].

Dal momento che i Titani sono le “anime” dei sette pianeti, così come risulta a chiare lettere dal mito pelasgico della creazione, che li dice generati da Eurinome e Ofione [56], i sette venti, figli di Enmešarra, non dovranno essere, a loro volta, che i sette pianeti. I sette figli di Enmešarra sono raramente identificati, anche per la frammentarietà delle fonti a disposizione. Un dato certo è che Nergal, Sîn e Nusku erano annoverati tra essi [57]. Dal momento che Nusku è il pianeta Mercurio [58] e che Sîn e Nergal sono la Luna e Marte (questi due sono però anche, significativamente, i Gemelli, zodiacali [59]) l’identità planetaria di essi è ben fondata.

Tavoletta n. 92687 del British Museum, “Mappa babilonese del mondo”

Si è già citato il Cilindro A di Gudea, dove è detto che Ningirsu/Ninurta (allotropo parzialmente depotenziato di Kronos-Saturno) “dall’alto picco, la casa della tempesta, la montagna, il luogo sacro, un vento manderà a te [Gudea] e darà al paese la brezza di vita”. La sacra montagna di Ningirsu/Saturno non è evidentemente una montagna terrestre: deve essere qualche luogo dello spazio esterno. Ciò è comprensibile dal confronto con la tavoletta n. 92687 del British Museum, alla quale spesso ci si riferisce come la “Mappa babilonese del mondo”, ma che non è altro che una rappresentazione del cosmo extraterrestre. Sul suo dritto essa mostra due cerchi concentrici il cui centro è occupato dalla città di Babilonia. Lo spazio tra i due cerchi è invece occupato dal nâr.mar-ra-tu, i.e. “il Fiume Amaro”, identificato con l’Oceano. Lungo il cerchio più esterno si estende una serie di sette triangoli isosceli stilizzati, ciascuno separato da un arco, a formare una sorta di stella a sette punte. Ciascuna delle sette punte reca l’iscrizione na-gu-ù = “regione”, e una di esse è definita anche “il luogo dove non si vede il sole” [60]. Questa serie di triangoli e archi rappresentano una catena montuosa stilizzata, che non può che essere la divina dimora dei venti, e che è quella medesima catena montuosa che nell’Epopea di Gilgamesh va sotto il nome di catena montuosa (o monte) Mašu, la montagna dei Gemelli, la catena montuosa che “ogni giorno vede il sorgere del sole: sopra di essa si estende la volta celeste, al di sotto raggiunge gli inferi, mentre gli uomini-scorpione stanno a guardia della sua porta”. Otteniamo quindi la seguente immagine cosmologica: la terra abitata (ecumene) è circondata dal Fiume Amaro che, a sua volta, è circondato dalla catena montuosa con sette picchi, la cui sommità tocca il cielo e le cui fondamenta arrivano giù fino agli inferi, l’Arallu. In sintesi: la catena montuosa è come un anello attorno all’universo lungo il quale cielo e inferi si incontrano [61].

Il fiume di fuoco della Via Lattea meridionale

Da parte nostra non possiamo che dedurre che tale sistema non è altro se non il mondo celeste. Il Fiume Amaro/Oceano è il cielo, la catena montuosa che lo “fascia” è il coluro equinoziale (il cerchio massimo che interseca l’eclittica nei due punti equinoziali), il cui arco superiore, che parte dal punto equinoziale primaverile, si estende verso il cielo, mentre l’arco inferiore, che parte dal punto equinoziale autunnale, è invisibile, e lì, nel profondo degli inferi, il sole è assente. Durante l’Età dell’Oro, o Era dei Gemelli, il coluro equinoziale, normalmente una linea immaginaria, era visibile e coincideva con la Via Lattea. I punti equinoziali, a quel tempo, erano occupati dai Gemelli a nord e dal Sagittario/Scorpione a sud. Gilgameš, che intende accedere alla “confluenza dei fiumi”, luogo dell’eterna pace di Ziusudra/Utnapištim, deve attraversare la porta equinoziale infera guardata dagli uomini-scorpione. Alla fine dell’Età dell’Oro la Via Lattea perse le proprie prerogative auree equinoziali e si mutò in un fiume di morte. E’ questo il fiume di fuoco visto dall’anima di Timarco (fuoriuscita dal suo cranio, cedutene le suture) nella propria esperienza ultramondana [62], e che la tradizione chiama Flegetonte, collocato precisamente laddove l’eclittica incrocia tuttora la Via Lattea, tra Sagittario e Scorpione. Lungo questo fiume “infernale” Dante, seguendo Virgilio, colloca i centauri saettanti, la costellazione del Sagittario [63]. Poiché anche i fiumi sono implicati nella simbologia del tempo (l’Acheloo era a sua volta rappresentato come un serpente taurocefalo), le tradizioni orfiche interpretano i fiumi dell’aldilà, l’Amelete e lo Stige, come allegorie del liquido seminale [64], essenza generativa, ma anche causa della caduta delle anime nel divenire. Il cielo è un fiume amaro [65], la galassia un fiume infuocato dove le anime si dibattono, tormentate dalle bestie zodiacali. Questo cosmo è sofferenza. Le anime sono stelle che si spengono e si accendono, a seconda che vadano verso la nascita o ritornino dopo la morte [66]. Il viaggio di Gilgameš assomiglia più a un viaggio a ritroso nel tempo fino agli aurei primordi del cosmo, che non un assurdo vagabondaggio in improbabili contrade terrestri. Partendo dalla constatazione che, nelle corrispondenze dei segni zodiacali con le parti del corpo, i Gemelli governano il torace, abbiamo notato la relazione del nome dei Gemelli indiani, gli Ašwin, con il verbo sanscrito ašwasimi = “respirare”: l’Era dei Gemelli si porrebbe dunque come un’epoca della piena vita, del soffio vitale continuo [67].

I centauri saettano le anime nel Flegetonte. Illustrazione di G. Dorè per la Divina Commedia

Se la catena montuosa che “fascia” il cielo (o lo stringe come un serpente) è il coluro equinoziale, per estensione essa può essere intesa anche come l’eclittica (a buon diritto “montagna del sole”): i sette picchi dei sette venti che la compongono sono i sette cieli planetari; tutti i pianeti si muovono entro i 47° dell’eclittica. E infatti, “dal momento che… le montagne che fanno da dimora ai venti, e pertanto rappresentano i sette punti di partenza delle sette direzioni, raggiungono con le loro cime la volta celeste e con le loro radici il mondo infero, esse determinano allo stesso tempo sette sfere nella volta celeste e sette divisioni nello spazio degli inferi” [68]. Gli “inferi”, tuttavia, non sono altro che la parte inferiore del cielo. Se si immaginano sette cerchi concentrici intorno alla terra, divisi da un diametro, gli emicicli superiori saranno i “cieli” propriamente detti, mentre gli emicicli inferiori saranno gli “inferi”. Ma si tratta, pur sempre, di una parte dei cieli in quanto tali [69]. Questo complesso cosmico determinato dalle sette ripartizioni del cielo e degli inferi porta non a caso il nome akkadico di kiššatum, che è esattamente il termine usato per scrivere “universo”, e che in sumero è espresso dal numerale VII [70]. Coerentemente, i sette venti sono designati, in akkadico, come si-bit [71] ilâni.meš kiš-šà-ti (sum. VII-a-an dingir VII-a-an-meš) “i sette dèi dell’universo”, designati anche (nel medesimo testo da cui tali nozioni sono tratte) come “le tempeste che portano le nuvole, venti maligni essi sono… sette dèi “predoni”, sette dèi dell’universo”. Il testo in questione porta il titolo eloquente di utukkî limnûti = “Spiriti Maligni” [72]. Quale miglior nome da attribuire ai Titani/pianeti, esseri un tempo uranici, poi decaduti al rango di demoni con la fine dell’Età dell’Oro e lo stabilirsi dell’obliquità dell’eclittica [73]?

La struttura dell’eclittica. L’asse del mondo, l’albero cosmico, la montagna sacra

Sennonché, altri testi utilizzano l’espressione “i sette buoni venti” [74]. In ogni caso, essi sono “quei sette [che] nacquero nella montagna del tramonto, quei sette [che] crebbero nella montagna del levar del sole” [75]: essa è la montagna “solare” dell’eclittica, completata nella sua struttura dal coluro equinoziale. Dall’alternativa natura, malefica o benefica, attribuita dai testi mesopotamici ai sette venti/pianeti, discende l’ambigua natura dei Titani [76]. Ai tempi dei Sumeri non si era ancora evidentemente spenta nella memoria la loro natura uranica.

Cieli planetari da cui proviene il “soffio” che vivifica l’universo. Con altre parole possiamo dire che i cieli planetari sono le componenti della macchina del tempo entro la quale tutte le cose nascono e periscono. I pianeti incarnano l’anima tremenda e inesorabile dell’eclittica obliqua, che provoca l’alternanza stagionale, ma che è anche il motore che permette agli eventi di “essere”. Non dimentichiamo mai che, per gli antichi, “creazione” equivale a “misurazione”: misurazione nel tempo, non nello spazio [77]. Come insegnava Platone, la striscia serpentina dell’anima del mondo, l’eclittica, che è il Chronos-serpente con tre volti, a marcare i punti fondamentali di un anno diviso in tre stagioni, non è che una serie numerica [78], il cui numero fondamentale è il 54, corrispondente a metà della vita umana, immaginata in 108 anni [79]. Le anime-serpenti degli esseri umani, queste “immagini di vita”, o “frammenti di tempo”, sono composte dai residui dell’anima del mondo [80] e vengono dai pianeti, “strumenti del tempo”, sui quali il Demiurgo le seminò [81], come si seminano i chicchi di grano destinati a germogliare e a essere tagliati, quando si trasformano in spighe. Ecco perché le anime devono necessariamente “ritornare”: esse sono sottoposte alla macchina del tempo cosmico. Le anime sono la polvere del tempo. Già il ritmico inspirare ed espirare dell’essere umano rivela la nozione del numero, così come la rivela l’alternanza giorno-notte [82]. Respirando è come se abbandonassimo tempo, invecchiando. Ma invecchiando non facciamo che proiettarci verso la futura rinascita dalle stelle; stelle cadenti [83]: cadute in mezzo al “fiume amaro” del tempo-esistenza.

NOTE

[1] Da una radice verbale protoindoeuropea bhes- = “soffiare”; cfr. sscr. babhasti (L. Rocci, Vocabolario Greco – Italiano, S.E. Dante Alighieri, ed. 1998).

[2] Sulla natura fredda della ψυχή, poiché associata al pallido midollo cerebrospinale e al cervello, “la più fredda delle parti del corpo”, in contrapposizione al θυμός, associato al caldo e al sangue, cfr. R. B. Onians, Le origini del pensiero europeo introno al corpo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo e il destino, Adelphi, 2011, p. 147, nota 1.

[3] Θυμός, da θυμιάω (tymiào) = lett. “bruciare producendo fumo” (R. B. Onians, op. cit., p. 47), da accostare al sscr. dhūmah = “vapore/fumo” (R. B. Onians, op. cit., p. 70).

[4] R. B. Onians, op. cit., p. 122.

[5] R. B. Onians, op. cit., p. 201.

[6] Lett. “immagine”. Si tratta dell’ombra del defunto, la sua immagine residua.

[7] R. B. Onians, op. cit., p. 123. Non ci addentriamo in una comparazione con il concetto egizio di anima, e nella distinzione tra il ka (che sembra tuttavia avere maggiore affinità con la ψυχή/εἴδωλον) e il ba.

[8] Così, ordinariamente, nella Septuaginta: cfr. p. es. Proverbi, VII, 23, VIII, 36, nonché Deuteronomio, XII, 23, dove nepesh/ψυχή viene significativamente associata ad αἶμα (àima), il sangue.

[9] J. A. Benner, The Ancient Hebrew Lexicon of the Bible, Virtualbookworm.com Publishing Inc., 2005, pp. 381 – 382.

[10] A. S. Tritton, The Living Soul; A Study of the Meaning of the Word “NÆFÆŠ” in the Old Testament Hebrew Language by A. Murtonen, The Journal of the Royal Asiatic Society of Great Britain and Ireland, No. 1/2 (Apr., 1959), p. 57.

[11] Questa misteriosa tenebra infinita trova il suo ascendente etimologico nell’akkadico erebu = “calar del sole/ovest” (cfr. ebr. ereb = “sera”) o erēpu = “essere oscuro” (G. Semerano, Le origini della cultura europea, Leo S. Olschki Editore, 1984, p. XIX). Lo stesso nome di Orfeo, i cui riti misterici si officiavano in gran parte di notte, troverebbe in tale termine la sua origine (G. Semerano, loc. cit.).

[12] Fr. O42 Tonelli, in (a cura di) A. Tonelli, Eleusis e Orfismo, Feltrinelli, 2015,p. 381.

[13] La teologia di Eliopoli contemplava un cosmo originato dagli starnuti di Atum, mentre quella di Ermopoli poneva al centro della creazione un uovo cosmogonico (C. Tubi, Regalità e sciamanesimo nell’Antico Egitto, Il Cerchio, 2005, p. 26).

[14] A. Tonelli (a cura di), op cit., p. 583.

[15] G. Garbini (a cura di), Il Poema di Baal di Ilumilku, Paideia, 2014, p. 37.

[16] G. Garbini, loc. cit. L’A. riporta in nota: “Per nascondere il riferimento alla mitologia fenicia e specialmente la presenza dell’amore l’autore biblico ha fatto di thw (sostantivo derivato dalla radice hwy «amare») un sinonimo di bahaw «tenebre» unendo i due termini in una specie di endiadi; la vocalizzazione di bahaw è testimoniata da un frammento di Filone che cita questo nome nella forma greca baau: si tratta di una diversa tradizione cosmogonica elaborata in lingua greca nella quale il vento rappresenta l’elemento maschile (anemos) mentre bahaw viene femminilizzato in nykta «notte»” (G. Garbini, op. cit, 2014, p. 37, nota 4).

[17] R. B. Onians, p. 35.

[18] R. B. Onians, op. cit., p. 79.

[19] R. B. Onians, op. cit., p. 146, nota 3.

[20] R. Graves, I miti greci, Longanesi, 1963, I, a – b.

[21] Iliade, V, 697 – 698.

[22] R. B. Onians, op. cit., p. 157.

[23] R. Graves, op. cit., I, 1. Tale sapienza è forse alla base delle rappresentazioni dei serpenti barbuti (R. B. Onians, op. cit., p. 284). In effetti, da bambino, ci è capitato spesso di sentir parlare, da parte di persone anziane, dell’avvistamento di serpenti con caratteristiche umane, come la barba o addirittura gli occhiali. Queste persone, rigorosamente donne e con fama di togliere il malocchio, avevano tra i loro racconti preferiti quelli dell’incontro con le anime dei defunti.

[24] R. B. Onians, op. cit., p. 241.

[25] Art. 1 della legge n. 578 del 29.12.1993.

[26] R. B. Onians, op. cit., pp. 145, 249.

[27] R. B. Onians, op. cit., p. 249, nota 4.

[28] R. B. Onians, op. cit., p. 145.

[29] R. B. Onians, op. cit., p. 146.

[30] Fr. 71 Kern.

[31] R. B. Onians, op. cit., pp. 146 – 147.

[32] Nella parola Chrònos è già insista l’idea dello scorrere, ρέω/rèo (A. Casella, La macchina del tempo. Saggio sulla cosmetologia arcaica, Axis Mundi, 2023, p. 25).

[33] Fr. 68 Kern.

[34] Fr. 54, 57 Kern. Due teste di questo serpente, essendo quelle di un toro e di un leone, rappresentano l’equinozio e il solstizio (dell’Era del Toro).

[35] N. D’Anna, Il gioco cosmico, Rusconi, 1999, p. 78.

[36] Un concetto simile evoca l’epiteto orfico di Kronos-Saturno, κορόνους (korònous), “che guarda se stesso”, indicando il titano come signore non più dell’Età dell’Oro, ma dell’Età dell’Argento, la cui stirpe per prima conobbe il tempo come grandezza misurabile, sentendolo nella propria introspezione psicologica (A. Casella, op. cit., pp. 185 – 186).

[37] Fr. 54 Kern.

[38] Secondo la famosa Tavoletta XI dell’Epopea di Gilgameš in akkadico, Gilgameš, su indicazione di Utnapištim, deve scendere in un cunicolo dell’Apsû per impadronirsi di una pianta spinosa che gli donerà “nuova vita”; espressione imprecisa che Speiser definisce “un processo di ringiovanimento”. Sennonché, sulla via del ritorno, mentre l’eroe è intento al bagno presso un pozzo, un serpente (alla lettera: un leone di terra) viene su dall’acqua, afferra la pianta, e, ritornando in acqua, muta pelle (G. de Santillana – H. von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi, 2011, p. 349).

[39] N. D’Anna, op. cit., p. 108.

[40] Αἰών è tradotto comunemente con “tempo”, “durata”, “età” (cfr. lat. aeuum). La parola è però formata dalla radice indoeuropea ayu-/aiw-, esprimente la “forza vitale”, da cui anche *y(u)wen = “giovane”. In Omero αἰών, nel senso di “forza vitale”, si trova talvolta associato a ψυχή, il “soffio vitale”, contrassegnando l’esito estremo dell’esistenza del “mortale”: quando la “forza vitale” abbandona il corpo, con essa se ne va anche il “soffio vitale” (N. D’Anna, op. cit., pp. 49 – 50).

[41] H. Lewy – J. Lewy, The Origin of the Week and the Oldest West Asiatic Calendar, Hebrew Union College Annual, Vol. 17 (1942 – 43), p. 5.

[42] H. Lewy – J. Lewy, op. cit., pp. 5 – 6. Gli AA. segnalano il verbo arabo râḥa, che accanto al significato primario di “soffiare” presenta anche quello di “fare qualche attività di sera”.

[43] H. Lewy – J. Lewy, op. cit., p. 16.

[44] H. Lewy – J. Lewy, op. cit., pp. 26 ss.

[45] Cfr. A. Casella, op. cit., APPENDICE. Identificato con la costellazione di SHU.GI/Perseo è un dio morto che riappare ogni volta che si stabilisce un nuovo asse del mondo, ossia un nuovo coluro equinoziale, in tal caso quello dell’Era dell’Ariete, che passa per la costellazione di Perseo. Si noti che il nome “Perseo” ha affinità con il termine parṣu = “misura”, corrispettivo akkadico dei ME sumeri (G. de Santillana – H. von Dechend, op. cit., p. 313). In tempi precedenti il suo cadavere era invece portato dal cocchio elamitico, guidato, non a caso, dal grande guerriero Ninurta: è il coluro equinoziale dell’Era del Toro (cfr. nota n. 51).

[46] H. Lewy – J. Lewy, op. cit., p. 26.

[47] Sesto mese del calendario babilonese, corrispondente al periodo agosto-settembre. Il nome è connesso al termine akkadico alâlu = “gridare/piangere ad alta voce”. Il mese era dedicato alla dea Inanna/Ištar; la resa logografica del mese era ITU.KIR.DINGIR.NIN.NA = “mese del messaggio di Ištar”, poiché in questo mese ella si recava agli inferi (W. Muss-Arnolt, The Names of the Assyro-Babylonian Months and their Regents, Journal of Biblical Literature, Vol. 11, No. 1 (1892), pp. 88 – 89). La dea vi si recava per incontrare Tammuz, suo fratello-figlio-sposo: un altro dio morto per “cause precessionali”, su cui dovremo indagare a tempo debito.

[48] H. Lewy – J. Lewy, op. cit., p. 26.

[49] Il testo non è tratto dallo stringato riferimento in H. Lewy – J. Lewy, op. cit., p. 26, ma da G. de Santillana – H. von Dechend, op. cit, pp. 313 – 314, secondo la traduzione di Erich Ebeling. Per questa immagine, tratta da un commentario cultuale del I millennio a.C., vedi anche A. Annus, The god Ninurta in the Mythology and Royal Ideology of Ancient Mesopotamia, State Archives of Assyrian Studies, vol. 14, University of Helsinki, 2002, p. 27.

[50] In alcune fonti si dice che Enki, detentore dei me, li avesse ceduti a Inanna spontaneamente (benché dopo essersi ubriacato) durante un banchetto (Viaggio di Inanna a Eridu, III, C, ll. 34 ss., in (a cura di) G. Pettinato, Mitologia Sumerica, UTET, 2001, IV, 1). In questo “passaggio di consegne” dei me, con il loro trasporto da Eridu a Uruk, è stata opportunamente letta un’altra versione del mutamento processionale che conduce dall’Età dell’Oro all’Era del Toro (A. Bellon, Il Sangue degli Dei. Nozze sacre nella terra dei Sumeri, Psiche 2, 2018, p. 110). La circostanza dell’ebbrezza di Enki è interessante, perché, unitamente alla “discesa” di Inanna all’Apsû, sembra alludere a un rituale dalle connotazioni funebri. Alla “consegna dei me” consegue la morte (simbolica) di Enki. Diciamo questo perché l’ebbrezza di Enki può essere accostata a quella che il testo KTU 1.114 attribuisce al suo omologo ugaritico, El. Questi, dopo un banchetto, durante il quale mangia e beve fino ad ubriacarsi, si alza per tornare alla sua dimora, ma cade a terra come morto, in mezzo al suo vomito e alle sue feci. Si rialza solo con l’aiuto di due figure demoniache, le quali rivelano il collegamento del banchetto, chiamato mrzh, con il regno dei morti. Geremia, XVI, 5, dice appunto che il marzeah è un banchetto dove si fa un lamento per un morto (G. Garbini, op. cit. p. 29). Ora, il mese fenicio di Marzex, evocante “l’idea di un pasto funebre, che chiudeva le cerimonie di lamentazione e lutto”, corrispondeva a Elûl (W. Muss-Arnolt, op. cit., p. 89. Cfr. anche nota n. 47).

[51] G. de Santillana – H. von Dechend, op. cit., pp. 313 – 314. Gli AA. evidenziano come il suo cadavere portato dal carro elamitico a due ruote sia la versione originale (sumera) del mito di Fetonte, sbalzato dal cocchio solare, a sua volta allegoria della fine dell’Età dell’Oro, che registrò il drammatico spostamento del coluro equinoziale fuori dalla linea visibile della Via Lattea. Il coluro equinoziale si ricolloca quindi sulla direttrice del Toro e dell’Auriga. La costellazione “Carro di Enmešarra”, mentre nella sphaera graecanica è assente (nel “nostro” cielo l’Auriga è infatti privo di veicolo), sopravvive nella sphaera barbarica degli astrologi babilonesi, che la identificano con la stelle β e ζ Tauri. Ad ogni nuovo ordine del mondo Enmešarra ritorna spettralmente sulla ricostituita linea del coluro equinoziale: nell’Era dell’Ariete trapassa in SHU.GI/Perseo. Kronos-Saturno era in origine un dio degli inizi, un dio equinoziale, ovvero della primavera: così veniva celebrato ancora a Olimpia, sul monte Cronio (A. Casella, op. cit., p. 170). Tutti gli antichi calendari, compresi quello babilonese e romano, principiavano in primavera; l’inverno era una stagione che non esisteva. Non che Kronos-Saturno sia del tutto assente nei “mondi” non più governati da lui, ma egli si ripresenta sotto mentite spoglie, nella veste di personaggi minori, “depotenziati”: in Grecia, nel cosmo retto da Zeus, indossa le maschere di Fetonte, di Prometeo, di Efesto. In Mesopotamia la sua metamorfosi è Ningirsu/Ninurta (che non a caso è proprio l’Auriga del Carro di Enmešarra), oppure Enki-Ea. Enki-Ea rimane ancora signore di una parte del cosmo, la sua contrada inferiore, l’Apsû, che è il corrispettivo mesopotamico del Tartaro, di cui tuttavia non è prigioniero. I testi sumeri celebrano ancora la potenza di Enki: “Io [Enki] sono il padre dei paesi / io sono il fratello maggiore degli Dèi, che rende perfetta l’abbondanza, / io sono il detentore del sigillo di cielo e terra [il coluro equinoziale?] / io sono la saggezza e l’ingegnosità dei paesi, / io sono, assieme ad An, assiso sul trono di An, colui che esercita la giustizia, / io sono assieme ad Enlil, colui che stabilisce un buon destino.” (Enki e il nuovo ordine del mondo, II, ll. 70 – 75, in (a cura di) G. Pettinato, Mitologia Sumerica, op. cit., I, 16).

[52] “Zeus ‘intartarò’ (κατεταρτάρωσεν) suo padre” (fr. 58 Kern).

[53] “Poseidone, il signore delle profondità sotterranee, ha posto in questo luogo di prigionia delle porte di bronzo, mentre un muro vi corre intorno da tutte le parti” (Esiodo, Teogonia, 732 – 733).

[54] L’idea vicinorientale della morte degli dèi (famosa quella di Baal, mentre la Bibbia accenna a una morte degli Elohim nel Salmo LXXXII, 6 – 7) è ciò che più segna la differenza con la concezione greca, secondo cui “le opere divine periscono, ma non gli dei” (Sofocle, fr. 850 Radt, da una tragedia perduta). Questa concezione viene tuttavia a mitigarsi, in età ellenistica, a causa dell’incontro con idee tipicamente vicinorientali, che faranno da sostrato a dottrine come lo stoicismo, secondo cui “di tutti gli dei esistenti uno solo è eterno e incorruttibile, mentre gli altri sono nati e destinati a perire” (Plutarco, De defectu oraculorum, 19, 420 B).

[55] “Il grandissimo Kronos fornisce dall’alto al demiurgo i principi di comprensione e sovraintende a tutta la creazione” (fr. 155 Kern). Il frammento orfico dice “dall’alto” perché si riferisce proprio al pianeta Saturno.

[56] R. Graves, op. cit., 1, d.

[57] H. Lewy – J. Lewy, op. cit., pp. 38 – 39.

[58] H. Lewy – J. Lewy, The God Nusku, Orientalia, NOVA SERIES, Vol. 17, No. 2 (1948), p. 149.

[59] R. L. Bailey, The Gold Calf, Hebrew Union College Annual, Vol. 42 (1971), p. 109. Cfr. anche MUL.APIN (A. Casella, op. cit., APPENDICE). MES.LAM.TA.E.A, in particolare, che identifica β Geminorum (Polluce), fu il più antico nome di Nergal (G. de Santillana – H. von Dechend, op. cit., p. 569, nota 1), ma venne dato anche a Gilgameš. Gilgameš e Nergal, legati agli inferi, non sarebbero che lo stesso personaggio divino (G. de Santillana – H. von Dechend, op. cit., p. 579). Il significato di MES.LAM.TA.E.A è indicativo, poiché si rende “che viene fuori da MES.LAM”, dove MES.LAM era il nome del santuario di Nergal a Kutha, e significa “l’albero-MES che cresce lussureggiante” (G. de Santillana – H. von Dechend, op. cit., p. 569, nota 1). Che cos’è questo misterioso albero-MES se non la Via Lattea, il cui “abbattimento” determina la fine dell’Età dell’Oro (o Era dei Gemelli) e la necessità di cercare “una nuova via”, i.e. la nuova via dell’equinozio, compito di cui si incarica proprio Gilgameš? (G. de Santillana – H. von Dechend, op. cit., pp. 578 – 579).

[60] Questo luogo ricomparirà con il medesimo nome secoli dopo nelle diverse versioni del Romanzo di Alessandro.

[61] Per tali riferimenti vedi H. Lewy – J. Lewy, The Origin of the Week and the Oldest West Asiatic Calendar, Hebrew Union College Annual, Vol. 17 (1942 – 43), pp. 10 – 15.

[62] Plutarco, Il demone di Socrate, 22, 590, F. Nel momento in cui l’anima di Timarco si allontanava verso l’alto “mescolandosi felice all’aria tersa e pura, gli pareva che respirasse allora per la prima volta a pieni polmoni, dopo essere stata a lungo compressa, e occupasse un volume maggiore, quasi fosse una vela gonfiata dal vento” (Plutarco, Il demone di Socrate, 22, 590, C).

[63] Si noti che Ningirsu è dal MUL.APIN identificato con la costellazione infera del Centauro, il quale può essere considerato una replica del Sagittario. Le zampe del Centauro formano la costellazione oggi nota come Croce del Sud.

[64] “E qui frequentemente Numenio e coloro che spiegano le allegorie di Pitagora, interpretando come sperma quello che in Platone è il fiume Amelete, in Esiodo e negli orfici lo Stige, in Ferecide la corrente” (fr. 124 Kern).

[65] Su Oceano/Okeanos come il cielo e sulla sua relazione con il simbolismo dei fiumi e con il tempo cfr. A. Casella, op. cit., cap. V.

[66] Plutarco, Il demone di Socrate, 22, 591, F.

[67] A. Casella, op. cit., pp. 32 – 33.

[68] H. lewy – J. Lewy, op. cit., p. 17.

[69] Nella visione di Timarco, l’Ade è descritto come la parte inferiore di una sfera “tagliata via” e come una regione celeste posta al di sotto di un’altra, superiore, di cui i dèi guardiani dell’Ade non sanno nulla (Plutarco, Il demone di Socrate, 22, 590, F – 591 A).

[70] H. Lewy – J. Lewy, op. cit., p. 16.

[71] Akk. sibit/sebe = num. card. “sette”. Se ne noterà la somiglianza fonetica con il corrispettivo italiano. In effetti, per la sua pronuncia simile in molte lingue, il numerale 7 sembra aver avuto un’importanza veramente universale. “Da un punto di vista comparativo, è interessante notare quanto singoli temi numerali… trovino echi fonetici non solo nel camitico ma anche nell’indoeuropeo e nel basco (l’esempio più curioso è quello del «7» – numero «magico» per eccellenza: ar. Sab’, latino sept-em, berbero /ssa/, egiz. (copto) sašf, basco /saspi/).” (G. Garbini – O. Durand, Introduzione alle lingue semitiche, Paideia-Claudiana, 2019, p. 110).

[72] H. Lewy – J. Lewy, op. cit, p. 17.

[73] A. Casella, op. cit., pp. 41 – 43. La fisionomia demoniaca dei Titani è particolarmente accentuata negli Asura indiani.

[74] H. Lewy – J. Lewy, op. cit, p. 20.

[75] H. Lewy – J. Lewy, op. cit, p. 18.

[76] In Grecia, lo stesso Prometeo, maschera di Kronos, è un caro amico degli uomini; forse il miglior amico che gli uomini abbiano mai avuto.

[77] A. Casella, op. cit., p. 172.

[78] Platone, Timeo, 35 B – C, 36 A – D.

[79] Plutarco, De defectu oraculorum, 11, 415 E – F.

[80] Platone, Timeo, 41 D.

[81] Platone, Timeo, 42 D.

[82] Platone, Epinomide, 978 C – D.

[83] Platone, Repubblica, 621 B.

BIBLIOGRAFIA

Annus A., The god Ninurta in the Mythology and Royal Ideology of Ancient Mesopotamia, State Archives of Assyrian Studies, vol. 14, University of Helsinki, 2002

Bailey R. L., The Gold Calf, Hebrew Union College Annual, Vol. 42, (1971), pp. 97 – 115

Bellon A., Il Sangue degli Dei. Nozze sacre nella terra dei Sumeri, Psiche 2, 2018

Benner J. A., The Ancient Hebrew Lexicon of the Bible, Virtualbookworm.com Publishing Inc., 2005

Casella A., La macchina del tempo. Saggio sulla cosmo teologia arcaica, Axis Mundi, 2023

D’Anna N., Il gioco cosmico, Rusconi, 1999

De Santillana G. – Von Dechend H., Il mulino di Amleto, Adelphi, 2011

Garbini G. (a cura di), Il Poema di Baal di Ilumilku, Paideia, 2014

Garbini G. – Durand O., Introduzione alle lingue semitiche, Paideia-Claudiana, 2019

Graves, I miti greci, Longanesi, 1963

Lewy H. – Lewy J., The Origin of the Week and the Oldest West Asiatic Calendar, Hebrew Union College Annual, Vol. 17 (1942 – 43), pp. 1 – 152c

Lewy H. – Lewy J., The God Nusku, Orientalia, NOVA SERIES, Vol. 17, No. 2 (1948), pp. 146 – 159

Muss-Arnolt W., The Names of the Assyro-Babylonian Months and their Regents, Journal of Biblical Literature, Vol. 11, No. 1 (1892), pp. 72 – 94

Onians R. B., Le origini del pensiero europeo intorno al corpo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo e il destino, Adelphi, 2011

Pettinato G., Mitologia Sumerica, UTET, 2001

Plutarco, Il demone di Socrate, Adelphi, 1988

Plutarco, Dialoghi delfici, Adelphi, 2013

Reale G. (a cura di), Platone, tutti gli scritti, Bompiani, 2001

Ricciardelli G. (a cura di), Esiodo, Teogonia, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, 2018

Semerano G., Le origini della cultura europea, Leo S. Olschki Editore, 1984

Tritton A. S., The Living Soul; A Study of the Meaning of the Word “NÆFÆŠ” in the Old Testament Hebrew Language by A. Murtonen, The Journal of the Royal Asiatic Society of Great Britain and Ireland, No. 1/2 (Apr., 1959), p. 57

Tonelli A. (a cura di), Eleusis e Orfismo, Feltrinelli 2015

Tubi C., Regalità e sciamanesimo nell’Antico Egitto, Il Cerchio, 2005

Verzura E. – Kern O. (a cura di), Orfici, Bompiani, 2011

Artículo*: Andrea Casella

Más info en https://ift.tt/ZXVAfF1 / Tfno. & WA 607725547 Centro MENADEL (Frasco Martín) Psicología Clínica y Tradicional en Mijas.
#Menadel #Psicología #Clínica #Tradicional #MijasPueblo

*No suscribimos necesariamente las opiniones o artículos aquí compartidos. No todo es lo que parece.

Deja un comentario